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LE ORCHIDEE DELLA COSTA RICA
Conferenza tenuta da Franco Pupulin il 30 dicembre 2017 presso il Casalone, Bologna, organizzata dalla Società Felsinea di Orchidofilia.

[/spb_text_block] [spb_single_image image=”10167″ image_size=”full” frame=”noframe” intro_animation=”none” full_width=”no” lightbox=”yes” link_target=”_self” caption=”Coryanthes picturata (wiki)” width=”3/4″ el_position=”first last”] [/spb_column] [blank_spacer height=”30px” width=”1/1″ el_position=”first last”] [spb_text_block pb_margin_bottom=”no” pb_border_bottom=”no” width=”1/2″ el_position=”first”]

1. Perché ci sono così tante orchidee?
La famiglia delle orchidee è una delle più numerose tra le piante che producono i fiori. Normalmente si crede che le orchidee siano una cosa rara, in realtà sono piante molto comuni e ce ne sono moltissime. Anche se i botanici non sono mai d’accordo, si suppone che ci siano 28.000 specie di orchidee, divise in 850 generi, ma sono numeri che continuano a cambiare.

Le orchidee rappresentano un terzo di tutte le monocotiledoni; ogni dieci piante con fiori una è un’orchidea: questo quindi ci fa capire che sul nostro pianeta le Orchidaceae hanno un posto rilevante. Il numero di specie è in continua evoluzione perché ogni anno si descrivono dalle 200 alle 500 nuove specie di orchidee.

Ci sono alcuni generi di Orchidaceae veramente unici nel regno vegetale per biodiversità. Per esempio, le Pleurothallis sono più di 1000 specie; per le Lepanthes dai fiori microscopici si stima che ce ne siano almeno 5000: al momento quindi ne conosciamo una su cinque specie reali, perché non sono mai state studiate perché ritenute poco interessanti per la dimensione, non interessano né ai raccoglitori né agli appassionati. Ogni volta che Franco Pupulin va nella foresta, individua 3-4 specie nuove di questo genere; per questo motivo il numero di specie di questi generi al momento è davvero provvisorio. Le Lephantes si assomigliano tutte e sono tutte diverse; sono tutte variazioni sul tema, che testimoniano una grandissima varietà interna ai singoli gruppi, peculiarità delle Orchidaceae.

Il campionamento delle orchidee tradizionalmente è stato fatto male, perché eseguito dai botanici del Primo Mondo durante le spedizioni, prendendo una pianta qua e una là, procedendo non sistematicamente e facendo alcuni errori di interpretazione. Proprio per questi errori a volte si hanno più sinonimi per la stessa pianta; certo si può avere variabilità all’interno della stessa specie, ma senza una giusta campionatura i diversi esemplari possono essere scambiati per specie differenti.

[/spb_text_block] [spb_single_image image=”10166″ image_size=”full” frame=”noframe” intro_animation=”none” full_width=”no” lightbox=”yes” link_target=”_self” caption=”il Clima del Costa Rica” width=”1/2″ el_position=”last”] [blank_spacer height=”30px” width=”1/1″ el_position=”first last”] [spb_column width=”1/1″ el_position=”first last”] [spb_text_block pb_margin_bottom=”no” pb_border_bottom=”no” width=”1/1″ el_position=”first last”]

2. Le orchidee e l’evoluzione

Per capire perché le orchidee sono così numerose dobbiamo parlare di evoluzione. Le orchidee fanno parte dell’ordine delle Asparagales; dal punto di vista filogenetico, il ramo delle Asparagales è uno dei primi, quindi le orchidee sono tra le piante più antiche, nonostante spesso si pensi che siano piante recenti e giovani.

Vediamo ora che ci dice l’orologio della vita con le tecniche moderne, l’orologio molecolare. Nel 2007 è stato riconosciuto il primo fossile di orchidea, la Meliorchis caribea, un genere estinto. Essendo un fossile racchiuso nell’ambra è stato possibile effettuarne la datazione. In questo modo la data del fossile è stata messa nell’albero dello sviluppo delle orchidee, permettendo di ricostruire i tempi di tutte le altre: il risultato di questa indagine è stata l’ipotesi secondo la quale le orchidee sono nate circa 75 milioni di anni fa, nel periodo dei dinosauri. Dopo il 2007 sono stati scoperti in Nuova Zelanda altri fossili del genere Dendrobium, genere che ancora esiste, ma non esistono più le specie conservate in questi fossili. Queste nuove scoperte hanno permesso di ricalibrare nuovamente l’orologio molecolare e con il consenso di tutti si è stabilito che le orchidee sono comparse tra gli 80 e i 120 milioni di anni fa.

Per capire meglio, il primo fossile di fiore conosciuto è datato a circa 130 milioni di anni: questo significa che le orchidee sono vecchie quasi come le prime piante che hanno fiorito sulla Terra; quindi sono antiche sopravviventi di gruppi di piante, molte delle quali sono scomparse dal pianeta Terra, ma le orchidee sono rimaste e hanno continuato a cambiare. Probabilmente si sono evolute per 100 milioni di anni. La loro evoluzione non è stata lineare, pian piano, ma per picchi. Ci sono momenti in cui c’è stata una grandissima speciazione, poi momenti più morbidi e nuovamente dei picchi, che vengono chiamati accelerazioni evolutive.

Alcuni studi recenti, condotti anche con la collaborazione del Jardín Botánico Lankester, hanno provato a datare i principali gruppi di orchidee usando la genetica. La tribù delle Cymbidieae racchiude la maggior parte delle orchidee del Nuovo Mondo. Le Zygopetalinae sono una sottotribù delle Cymbidieae, che raggruppa orchidee molto profumate dal color blu-violetto, colore che si trova raramente nelle altre famiglie di orchidee; nascono circa 12 milioni di anni fa e per la storia biologica del nostro pianeta risultano essere molto recenti, così come le Maxillariinae, altra sottotribù delle Cymbidieae, che nasce circa 11 milioni di anni fa. Anche le Pleurothallidinae, sottotribù delle Epidendreae, sono comparse all’incirca 10-15 milioni di anni fa; le Lepanthes, genere delle Pleurothallidinae, risalgono a 5 milioni di anni fa. Queste tribù sono il risultato del processo evolutivo, che normalmente si pensa essere lento e graduale. In realtà momenti di particolare sismicità del nostro pianeta, che hanno innalzato la catena delle Ande, che a sua volta non cresce costantemente, coincidono con le accelerazioni evolutive.

L’orologio molecolare è una tecnica utilizzata in evoluzione molecolare per stimare il tempo che è trascorso dalla separazione di due specie, a partire dallo studio delle differenze esistenti nelle sequenze amminoacidiche di alcune proteine. In pratica, l’orologio molecolare funziona perché oggi esistono tecniche per sequenziare il genoma delle piante, quindi si possono vedere delle parti di DNA della pianta presa in analisi e confrontarli con quelli di altre specie. Processando i dati al computer si può formulare un’ipotesi tra le parentele, ottenendo dei cladogrammi, una sorta di alberi genealogici. La lunghezza dei rami genealogici può essere calcolata in relazione al tempo di evoluzione; questo ci ha permesso di stabilire gli “orari” dell’evoluzione di queste piante, ma solo se si ha un fossile che può essere datato. Al giorno d’oggi si hanno sette fossili di orchidee e quindi è stato possibile provare a datare le orchidee. Le parti di DNA utilizzate fino a ora per fare questo lavoro sono inutili, nel senso che non si sa quali funzioni svolgano per la pianta. Infatti, la maggior parte della catena del DNA non è codificante: nel DNA umano circa il 97% è chiamato DNA spazzatura, perché solo poche parti di DNA hanno attività nell’espressione dei geni. Per cui spesso non si sa esattamente cosa siano queste parti di DNA fossile, ma esse hanno un loro codice che possiamo comparare. I frammenti studiati sono lunghi 400 paia di basi – il genoma umano è fatto da 6 miliardi di paia di basi, quindi 400 paia è veramente una dimensione ridicola. In realtà con il sequenziamento di nuova generazione si è passati a 400 mila coppie e così chiaramente la capacità di capire le relazioni di parentela è molto più forte.

Per spiegare meglio il concetto di evoluzione prendiamo in esame gli Inuit. La maggior parte di noi ha un sistema di regolazione del flusso sanguigno nelle dita delle mani: se siamo esposti a temperature molto fredde avviene il vasospasmo, cioè le zone venose che vanno alle dita si contraggono e non lasciano passare il sangue; il risultato è che le dita vanno in cancrena. Tutto ciò ha senso perché le nostre dita, a temperature molto fredde, funzionano come dei radiatori, disperdendo un sacco di calore e quindi il corpo sceglie di proteggere gli organi e le parti più importanti e sacrifica quelli non necessari alla sopravvivenza. Per questo motivo, dopo un po’ che si tengono le mani al freddo si sente dolore alle dita: è il segnale del corpo per avvisare che non c’è più flusso sanguigno e di conseguenza ripariamo le mani per scaldarle. Il segnale è utile perché ci avvisa di scaldare le mani, ma allo stesso tempo ha uno svantaggio, cioè implica che una persona deve smettere di lavorare a causa del dolore. Gli antenati degli Inuit hanno cominciato a emigrare verso il Polo Nord circa 6000 anni fa. Per puro caso uno di loro ha avuto per errore una mutazione nel suo DNA che impediva il funzionamento di questo meccanismo; di conseguenza anche quando faceva molto freddo non sentiva dolore alle mani. Si tratta di una mutazione molto rischiosa, perché poteva perdere le dita, ma molto comoda perché permetteva di lavorare di più rispetto agli altri. L’evoluzione avviene attraverso piccoli cambiamenti che si hanno nel sistema del DNA; di questi cambiamenti se ne hanno molti, ma non sempre funzionano. Si considera che la replica del DNA fa un errore all’incirca ogni milione di repliche; di solito non succede nulla perché queste mutazioni avvengono nella parte di DNA spazzatura, oppure non danno una caratteristica migliorativa. Se quella persona avesse avuto un mutamento del dolore alle mani in una zona con temperature alte non sarebbe cambiato nulla, ma si trattava proprio di un abitante di una zona più fredda. Queste popolazioni vivono di pesca fatta attraverso i buchi nel ghiaccio: non sentendo dolore alle mani, riusciva a pescare molto più pesce. Nella seconda parte dell’evoluzione entra in gioco la selezione sessuale: ovviamente le donne preferivano chi portava a casa più cibo, di conseguenza quell’uomo ha avuto più occasioni per riprodursi e i suoi geni sono passati con più frequenza negli Inuit rispetto a quelli degli altri. In 6000 anni tra gli Eschimesi Inuit questo carattere apparso casualmente, selezionato sessualmente, è diventato un carattere proprio di tutta la popolazione.
Nell’ordine degli Asparagales, oltre alla famiglia delle Orchidaceae, ci sono generi diversissimi tra di loro, come Agaphantus, Agave, Alium, Asparagus, Iris e Amarillis. All’interno di questo ordine molto antico, alla famiglia delle Agapanthaceae appartengono circa 6-10 specie; nella famiglia delle Alliaceae ci sono circa 20 generi e 700 specie; alle Asparagaceae appartengono 20 specie; invece alle Orchidaceae appartengono circa 30.000 specie. Questo vuol dire che essere vecchi e sopravviventi non è una ragione di successo garantita; infatti, molto probabilmente le famiglie con il minor numero di specie sono in via di estinzione.

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3. La zoofilia delle Orchidaceae

Se non è l’età, cos’è che fa la differenza nelle orchidee? La differenza la fa la zoofilia, perché le orchidee sono amiche degli animali. Mentre molte piante possono riprodursi senza agenti biotici, cioè senza la presenza di altri organismi che si occupano del lavoro sporco (si riproducono attraverso il vento, la pioggia, ecc…), le orchidee non ne sono capaci e il compito deve essere eseguito dagli animali. In un fossile di ambra è stata ritrovata un’ape estinta (la Proplebeia domenicana) e sopra alla sua schiena è ancora presente il polline di un’orchidea (la Meliorchis caribea già citata prima), a sua volta ormai estinta. Questo fossile è molto importante perché è stato possibile datarlo con il carbonio 14: ha circa 30 milioni di anni e questo significa che già allora le orchidee si riproducevano attraverso gli insetti. Questo potrebbe essere uno dei motivi per cui ci sono così tante specie.

Le api euglossine, nome che deriva dalla loro lingua lunga, sono imenotteri che si trovano nel Nuovo Mondo. I maschi visitano vari fiori profumati, tra cui le orchidee, ne raccolgono i profumi e ne fanno una miscela per attrarre le femmine: se non creano esattamente il profumo ideale non vengono accettati dalle femmine. Le api, per poter prelevare i profumi devono rompere i tessuti superficiali della pelle dei fiori delle orchidee e per questo sulle zampe anteriori hanno una sorta di spazzola con cui raspano e rompono le cellule, liberando le molecole profumate. Le zampe mezzane hanno una sorta di lunghi pettini, che, passati sopra le zampe anteriori, raccolgono le molecole profumate, che trasferiscono nelle zampe posteriori appositamente modificate: la tibia è grande e cava con una fessura per inserire i peli delle zampe mediane, in modo da contenere all’interno la fragranza.

L’ape può raspare e passare le molecole alle zampe mediane stando posata sul fiore, ma non può trasferirle alle zampe posteriori se non volando. Quindi si posano sul fiore, raspando, si spostano, prendono il volo per passare la fragranza alle zampe posteriori e poi ricominciano da capo. Ricordiamoci che la mutazione genetica è sempre casuale, può essere selezionata, ma non può essere obbligata. Per esempio, la Coryanthes ha modificato il suo labello in una forma simile a un mestolo, dove alla base della colonna ci sono due ghiandole che producono delle gocce di liquido che cadono nel “mestolo”; dopo alcuni giorni all’interno del labello se ne raccoglie una certa quantità. Tutti i fiori di Coryanthes sono caratterizzati da superfici lisce vicine alla fragranza, simili alla cera. In questo modo l’ape scivola e cade all’interno del labello a forma di mestolo e non può volar via dato che all’interno c’è il liquido secreto dall’orchidea. L’ape si bagna, ma non riesce a uscire perché i bordi sono troppi lisci; quindi deve trovare un altro modo per uscire: nuotando può arrivare a un tunnel, dove si vede la luce dalla parte opposta; in fondo l’aspetta il polline. Questo non può essere raccolto da una qualsiasi ape: se è troppo piccola passa, ma non prende il polline, se è troppo grande non passa e muore perché non può più uscire. Se è della misura giusta passa dal tunnel a fatica, esausta raccoglie il polline.

Per impollinare le Coryanthes l’ape deve caderci due volte: la prima per raccogliere il polline e la seconda per impollinare il fiore; pur di raccogliere i profumi, l’ape è disposta a ripetere il rischio e il passaggio nel tunnel.
In altri casi, gli insetti vanno ad accoppiarsi con il fiore: il fiore emette un profumo sottile, simile al ferormone prodotto dalla femmina quando è pronta per accoppiarsi. Il maschio ne è attratto, raggiunge il fiore, che ha modificato parte della sua anatomia producendo anche una parte tattile pelosa, a cui si aggrappa il palpo maschile: si tratta della pseudocopulazione.
Ci sono poi dei casi ancora più particolari.

Le vespe pompilidi del Nuovo Mondo sono molto grandi, hanno le ali arancioni come segnale che vanno lasciate stare dato che la loro puntura è veramente dolorosa. Queste vespe in un preciso momento della loro vita cacciano grossi ragni, le tarantole, e dopo la lotta iniettano con il pungiglione il veleno del corpo del ragno. Siccome la natura a volte è davvero mostruosa, questo veleno è solo paralizzante; la vespa trascina così il ragno nel nido nel terreno e depone un uovo al suo interno. In questo modo, quando la larva comincia a svilupparsi, ha carne fresca per nutrirsi. Molti anni fa il dottor Calaway H. Dodson aveva osservato una di queste vespe pompilidi visitare i fiori della cosiddetta “orchidea ragno”, la Brassia.

Franco Pupulin ha sempre avuto alcune perplessità su questa ipotesi. Lavorando all’orto botanico Lankester, è stato contattato dalla BBC di Londra per filmare questo evento: durante le riprese è stata vista una di queste vespe visitare il fiore di una Brassia, ma purtroppo era troppo in alto per poter filmare la scena. Secondo il dottor Dodson le vespe raggiungono il fiore e lo pungono; anche se quest’ultimo aspetto non è del tutto certo, è stato confermato che l’osservazione di Calaway Dodson è reale: le vespe pompilidi visitano questi fiori.

Inoltre, tra gli animali che visitano le orchidee ci sono i lepidotteri. Le farfalle diurne impollinano i fiori gialli e arancioni, alcuni con macchie sul labello in modo da indicare alla farfalla dove poter trovare il nettare. Dai casi descritti in precedenza si deduce che le orchidee si sono specializzate per dare qualche cosa in cambio agli insetti. Ma in alcuni casi le orchidee non danno nulla in cambio: alcune sono veramente perfide, perché per assurdo hanno uno sperone, che sembra un nettario, ma non fanno il nettare, perché dal punto di vista del metabolismo della pianta produrre nettare è un dispendio di energie. Come nel caso degli Eschimesi, per qualche ragione deve essere nata una pianta con sperone, che però non produceva il nettare; le farfalle ne erano comunque attratte per la forma, dato che aveva lo sperone come le altre. L’orchidea, sprecando meno energie a causa della mancata produzione del nettare, molto probabilmente diventava più grande e produceva più fiori. Con il tempo si sono selezionati gruppi di orchidee che hanno lo sperone, ma non producono nettare, ingannando così l’insetto.

Le orchidee impollinate dalle farfalle notturne invece si riconoscono dai fiori bianchi o verde chiaro e dal profumo emesso di notte; queste piante non investono energie a produrre i colori, dato che di notte non si vedono. Poiché anche produrre i profumi è costoso, questi sono prodotti solo quando gli insetti impollinatori sono attivi, quindi di notte.

Franco Pupulin sta studiando i fiori di un genere di orchidea, la Dichaea, che sbocciano solo al mattino: il fiore è molto piccolo, ma quando si apre il suo profumo si sente da molto lontano. Questo avviene solo se il tempo è bello; se il cielo è coperto i fiori si richiudono subito: questo perché la pianta è impollinata dalle api euglossine, che non volano se piove o fa brutto tempo. Quindi il fiore, per risparmiare energie, si apre solo se fa bello; vedere la sua fioritura di conseguenza non è affatto semplice.
Le mosche sono gli insetti da cui stiamo imparando di più, perché sono moltissime.

Qualche anno fa Franco Pupulin ha cominciato a studiare una specie di Pleurothallis, incuriosito dal fatto che facesse fiori arancioni. Ne era stata identificata un’unica specie, la Pleurothallis platyrachis, ma studiandola meglio è emerso come in realtà fossero sei specie diverse. Sui fiori di queste orchidee si vedevano sempre delle piccole mosche: è stato scoperto che in certi momenti del giorno la parte centrale del fiore produce goccioline microscopiche di nettare, che le mosche prelevano. Le mosche fanno una cosa curiosa, una sorta di corteggiamento dei maschi alle femmine. Il maschio preleva le goccioline e le ingurgita, fa una bolla e la offre alla femmina. Inoltre, sulla parte dorsale dei sepali ci sono organi che producono il ferormone di aggregazione, lo stesso ferormone che queste mosche producono per creare una zona di accoppiamento. Si tratta di un caso, prima del tutto sconosciuto: un’orchidea produce un ferormone per richiamare l’insetto, nonché nettare per trattenerlo. Grazie ai nuovi studi sulle Pleurothallidinae ogni giorno si scoprono nuovi meccanismi.

Per esempio, le Dracula hanno il labello che sembra un fungo: i loro insetti impollinatori, ditteri, depositano degli enzimi proprio sui funghi, che li corrodono leggermente così da potersene nutrire. Inoltre, questi stessi enzimi interagiscono con dei batteri, che a loro volta interagiscono con i tessuti: si tratta di una biologia veramente complessa, quasi come se fosse un insieme di scatole cinesi. La famiglia dei ditteri è estremamente interessante ed è composta da 7000 specie – e forse questo non è un caso: ad oggi si conoscono circa 5300 specie di Pleurothallidinae – ma secondo Pupulin è possibile che se ne scoprano altrettante, raggiungendo le 10.000; sono così varie e tante proprio perché impollinate dai ditteri. La relazione uno a uno è infatti molto più probabile con un gruppo di organismi molto numeroso dal punto di vista delle specie.

Anche gli uccelli impollinano le orchidee, per esempio i colibrì, che fecondano solo certe orchidee dai fiori rossi o viola con il labello a forma a tubo, che ricordi un qualcosa dove pescare il nettare in volo, dando dei piccoli colpetti con la testa. I fiori impollinati dai colibrì si riconoscono perché sono tutti rovinati e rotti: il colpo del becco non è preciso e, entrando nel nettario e prelevando il polline, lo rompe. Questo dato è estremamente importante per confutare alcune cose che si leggono in letteratura, come per esempio che le Masdevallia sono impollinate dai colibrì; queste affermazioni sono pura fantasia, perché Franco ha visto centinaia di Masdevallia in fiore, ma nessuna con i fiori rovinati; chiaramente i colibrì non li hanno visitati. Dopo che il colibrì ha pescato il nettare, tirando indietro la testa, il polline rimane incollato sul becco. Poiché gli uccelli sono molto più attivi e intelligenti degli insetti, potrebbero togliersi dal becco le due macchiette gialle causate dal polline che creano loro fastidio. Per questa ragione la maggior parte delle specie del genere Elleanthus ha il polline color grigio, in modo tale che il colibrì non lo veda e non lo tolga. Cosa succederà da qui a un milione di anni? Probabilmente la maggior parte delle orchidee fecondate dai colibrì avrà il polline di color scuro. Le altre invece lo hanno di color giallo perché è un colore che riflette molto i raggi UV, così da non degradarsi. Ovviamente il polline grigio è esposto a degradazione, però ha il vantaggio di non essere rimosso dai colibrì.
Alcuni anni fa è stato scoperto che in Sud Africa l’uccello del sole impollina una specie del genere Disa: con il becco visita fiore per fiore per prendere un po’ di nettare; procedendo gli rimane il polline attaccato alle zampe e di tanto in tanto trasferisce il polline da un fiore all’altro.

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4. L’epifitismo

Perché c’è l’epifitismo? Evidentemente è una delle chiavi che hanno permesso alle orchidee di essere diverse rispetto alle altre famiglie nate nello stesso momento, ma che hanno sviluppato solo poche specie. L’80% delle orchidee presenti sul pianeta vive sugli alberi. Però, in tutte le latitudini dove l’inverno è freddo le orchidee sono terrestri, perché le parti aeree non possono sopravvivere alle basse temperature. Nelle regioni tropicali, invece, il 90% delle orchidee sono epifite e solamente poche sono terrestri, perché le condizioni climatiche permettono alla pianta di sopravvivere tutto l’anno con le radici all’esterno.

Vivere sugli alberi rappresenta una grande opportunità, perché il suolo è già tutto occupato e bisogna competere per le stesse risorse – bisogna nascere e crescere velocemente, essere le più alte, ecc… Invece sugli alberi non vivono altre specie vegetali; questa è una grande opportunità per la sopravvivenza. Però l’ambiente epifitico è altamente ostico: c’è la luce, ma ci sono problemi di acqua, perché la pioggia asciuga subito e l’ambiente rimane secco fino alla pioggia successiva.

Le orchidee si sono adattate creando all’esterno delle radici uno strato di cellule morte, il velamen radicum, che funziona come spugna e riserva, trasferendo alla pianta l’acqua necessaria poco alla volta; in questo modo la pianta supera i momenti asciutti tra una pioggia e l’altra senza problemi. Questa modifica è facile da descrivere, ma non si può fabbricare, deve succedere per caso: tra le tante possibili varianti di errori di duplicazione del DNA deve esserci proprio un errore in quel punto che caratterizza la creazione del velamen.

In molte orchidee si hanno i fusti modificati, gli pseudobulbi: siccome la disponibilità di acqua nelle diverse stagioni non è continua, gli pseudobulbi permettono di immagazzinarla per quando arriva la stagione secca. Alcune piante hanno addirittura lo pseudobulbo vuoto all’interno, con dei buchi alla base creati dalla pianata stessa, dove vivono le formiche. Per anni si è pensato a un’unica relazione, cioè che la pianta creasse una tana per le formiche e queste in cambio la difendessero; e questo è vero: se raccogliete un Caularthron bilamellatum e non siete esperti, dopo poco sarete aggrediti da 50.000 formiche che pensano che la propria tana stia per essere distrutta. Si è inoltre scoperto che all’interno degli pseudobulbi le pareti apparentemente sono in grado di assorbire nutrienti; questo è stato scoperto perché le formiche sono state bombardate con carbonio radioattivo; dopo essere state lasciate andare e essere morte sono state trovate particelle radioattive in tutta la pianta.

Le orchidee hanno perfino la respirazione modificata CAM (Crassulacean Acid Metabolism), scoperta nelle piante Crassulaceae, cioè in organismi adattati a condizioni di aridità estrema: in estrema sintesi, questo processo fa sì che gli stomi, attraverso i quali la pianta respira, si aprano di notte anziché di giorno, perché, se si aprissero di giorno, le orchidee perderebbero troppa acqua. Per cui gli stomi si aprono di notte e con il buio fissano l’anidride carbonica.

Tutti questi sono cambiamenti sostanziali per le orchidee, che permettono la loro sopravvivenza come piante epifite. Nel 1991 è stato studiato un albero in Costa Rica appena caduto a causa delle piogge, un Protium, pianta che nei boschi ha un’altezza media di 27 metri ma che può raggiungere anche i 40 metri. È stato così possibile studiare la flora epifita e sono state rinvenute 504 piante di orchidee. Sul suolo non avrebbero potuto stabilirsi così tante piante, ma sull’albero sì, perché non hanno concorrenza. In quell’albero le orchidee non sono distribuite a caso; la distribuzione è stata confrontata con altri schemi analoghi nel mondo ed è emerso come sia quasi sempre la stessa. Ci sono poche piante nella parte più in ombra, e lo stesso vale per la parte più esterna costituita dai rami più piccoli. Nei rami centrali e di dimensioni intermedie ci sono la maggior parte delle piante epifite. Sono queste le aree dove c’è più equilibrio, sia per quanto riguarda la luce sia per quanto riguarda l’acqua: in basso c’è molta acqua e poca luce, in alto c’è molta luce ma è secco. Nella Riserva di San Ramón, dove è stato studiato questo caso, ci sono moltissimi alberi come questo, quindi immaginatevi quante orchidee.

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4. La geografia delle orchidee centroamericane

La famiglia delle orchidee, con circa 33.000 specie, è cosmopolita e si trova dappertutto tranne nella zona antartica; si trovano persino nei deserti non estremi, dove piove molto raramente. Per esempio, sulla costa del Perù, nella zona della capitale Lima, non piove mai, ma in certi momenti del giorno si forma una nebbia proveniente dal mare: questa è sufficiente per mantenere le orchidee in vita. Ciononostante, anche se sono diffuse praticamente in quasi tutto il pianeta, la maggior parte delle specie, circa il 90%, vive nelle zone tropicali e subtropicali. Anche in queste zone non sono distribuite uniformemente, perché la metà di tutte le orchidee conosciute vive nei tropici americani, l’altra metà nei tropici del resto del mondo (Africa, Asia e Australia). Questo è spiegabile con la sismicità legata alle catene montuose. In Asia ci sono moltissime orchidee nella zona della catena dell’Himalaya, perché il suolo alzandosi velocemente ha favorito la speciazione delle orchidee; in Sud America è successa la stessa cosa nella catena montuosa delle Ande.

Il numero di specie di orchidee della Costa Rica ammonta a circa 1600; il Brasile ne ha circa 3500 e l’Ecuador circa 4100. Il confronto però non è del tutto corretto perché il Brasile è molto più esteso della Costa Rica. Se si calcola l’indice di diversità, cioè il numero di specie in rapporto alla grandezza del territorio, la Costa Rica diventa il primo stato al mondo. L’Ecuador che primeggia come numero di specie ha un indice di diversità che è la metà di quello della Costa Rica. Ovunque ci si trovi in Costa Rica, è possibile vedere sicuramente un’orchidea; in Ecuador invece ci sono zone dove ci sono moltissime orchidee, ma anche zone dove ce ne sono poche. Anche nell’America Centrale, la distribuzione comunque non è uguale.

A Panama si conoscono circa 1400 specie, ma molto probabilmente ce ne sono molte di più, in un numero che si potrebbe avvicinare a quello della Costa Rica, se non di più, dato che ha tanti componenti della flora sud americana che la Costa Rica non ha: semplicemente non sono ancora state ricercate e studiate. Il Nicaragua invece ha circa 680 specie, circa la metà della Costa Rica. Ora cercheremo di capire perché c’è così tanta differenza nel Centro America; bisogna farlo attraverso la geologia dell’istmo centroamericano.

Come è stato detto sopra, nel periodo Cretaceo superiore (tra 65 e 100 milioni di anni fa) esistevano già le orchidee, ma già nell’Oligocene (tra 28 e 33 milioni di anni fa) esistevano le Zygopetalinae, ma non le Pleurothallidinae. A quest’epoca l’istmo tra le due Americhe non esisteva ancora, ma esistevano le isole oceaniche, con da un lato la placca caraibica, dall’altro la placca di Cocos, che si sommerge sotto quella dei Caraibi. Le isole oceaniche, che sono rimaste isolate per milioni di anni, ospitavano già delle orchidee che hanno creato nuove specie. Il tema della speciazione nelle isole è un tema molto interessante per la biologia, perché ogni isola può essere considerata un laboratorio a sé, che non ha contatti esterni, ed è molto interessante perché spiega molti dei meccanismi dell’evoluzione. Quindi per milioni di anni su ogni isola c’è stata un’evoluzione indipendente. Questo spiega perché la flora delle Orchidaceae in Costa Rica è molto diversa da quella di tutte le altre regioni vicine. Il ponte che collega le due Americhe è relativamente giovane: alcuni studiosi sostengono che si è chiuso 3 milioni di anni fa; secondo altri invece risalirebbe a 10 milioni. In entrambe le ipotesi il ponte si è chiuso quando le Pleurothallidinae hanno cominciato a esistere sul pianeta. Di fatto in Costa Rica si trovano specie e generi di Pleurothallidinae che non esistono più a nord, in Nicaragua, o più a est: per esempio alcune orchidee non sono presenti a Panama perché non lì non ci sono montagne alte, ma in realtà le ritroviamo sulle Ande, in condizioni e altitudini simili alle alte montagne della Costa Rica. Evidentemente un tempo doveva esserci una comunicazione con le Ande: solo così si comprendere come siano arrivate le orchidee da freddo. Questo spiega anche il fatto che ci sono molti endemismi, cioè piante che vivono solamente in un unico luogo: il 35% delle specie vive solo in Costa Rica, stato che ha quindi una percentuale di endemismo altissima. Le montagne sono molto importanti per le orchidee – questo è stato recentemente dimostrato scientificamente – e si è notato che i paesi con montagne basse hanno pochi endemismi: la Costa Rica ha montagne alte, mentre per esempio il Nicaragua è pianeggiante. Se si osserva la distribuzione delle orchidee sul pianeta, si scopre che esistono delle zone che costituiscono una sorta di barriera: sono le pianure. La maggior parte delle orchidee vive nelle zone intermedie e fresche.

Le zone basse tropicali sono calde e torride, quindi poco favorevoli alla vita delle orchidee. Per esempio, la flora del Nicaragua ha molte specie in comune con la Costa Rica, in particolare quelle specie che vivono sulla costa; invece, le piante che vivono sulle montagne della Costa Rica non sono presenti in Nicaragua. In Costa Rica ci sono terre a 0 metri sul livello del mare e zone montuose che arrivano quasi a 4000 metri di altitudine, dove a volte si ha brina e neve: sono montagne fredde ma non come le nostre italiane. In Costa Rica ci sono molto sistemi montuosi, ci sono molti vulcani, la cui cima è ricoperta da boschi, ma attorno ci sono zone pianeggianti. Quindi le orchidee che si trovano su un vulcano non saranno le stesse che si troveranno su di un altro vulcano nella zona, perché le orchidee rimangono isolate nelle zone fresche sulle cime dei monti e dei vulcani e non vanno in contatto con le orchidee delle cordigliere vicine, perché separate da zone pianeggianti torride.

La maggior parte delle orchidee in Costa Rica vive tra i 1200 e i 1600 metri. Scendendo da queste altitudini, le specie diminuiscono; allo stesso modo sono meno frequenti anche andando oltre perché fa troppo fresco. Questa fascia di gradimento non è uguale in tutti i paesi: per esempio più ci si avvicina all’Ecuador più la fascia si alza perché fa più caldo; viceversa verso il Messico si abbassa perché fa più freddo.
La Costa Rica ha l’Oceano Pacifico da un lato e dall’altro il mare dei Caraibi. Il clima della zona dei Caraibi è completamente diverso da quello della zona dell’Oceano Pacifico. Gli Alisei sono i venti dominanti, che soffiando dal mare dei Caraibi verso la terraferma, portano aria calda e si scontrano sulle catene montuose, salgono fino a un certo punto raffreddandosi dopodiché scaricano acqua: infatti, nella zona del mar dei Caraibi piove molto. Invece, nella zona dell’Oceano Pacifico si ha un clima secco: per esempio la penisola del Guanacaste può avere 300 giorni di secco all’anno.

Per interpretare il territorio, i geologi lo dividono nelle zone di vita, che sono definite dall’altitudine sul livello del mare e dalla quantità di precipitazioni. In base a queste caratteristiche le zone si dividono in: bosco tropicale 1 (basso e umido), bosco tropicale pluviale (molto umido), bosco premontano, bosco montano, ecc… Nonostante la Costa Rica sia un piccolo paese, presenta un mosaico di zone di vita differenti. Di conseguenza si ha un mosaico di zone popolate dalle orchidee. Per esempio, la Cattleya dowiana vive nella zona caraibica tra i 600 e i 900 metri di altitudine, ma non si trova in altre zone; oppure la Cattleya skinneri, che è il fiore nazionale della Costa Rica, cresce in una certa zona di vita e in quelle che hanno caratteristiche simili, ma non in altre aree. Questo significa che esiste una relazione molto forte tra il clima e l’orografia (altitudine sul mare e quantità di precipitazioni).

PER SAPERNE DI PIÚ
Potrete trovare moltissimi articoli di Franco Pupulin nei seguenti siti:
www.lankasteriana.org
www.epidendra.org
Articolo: Francesca Castiglione
Foto: Stefania Marina Alati

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Purtroppo i giorni a disposizione sono terminati troppo presto e a malincuore dobbiamo ritornare ad Antananarivo per prendere il volo per l‟Italia. Non manca comunque il tempo per andare a salutare qualche caro amico e comprare qualche souvenir da portare a casa.

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