Conferenza tenuta da Daniel Klein, presidente SFO, sabato 28 settembre 2019 a Varese Orchidea 2019.

Fra coltivatori di orchidee poche cose sono così divisive e dibattute come la fertilizzazione delle nostre adorate orchidee. Tutti a cercare il concime perfetto, il dosaggio giusto o comunque un protocollo che quello è e quello rimane fino alla fine dei tempi, magari con scadenze fisse e rassicuranti per goderci in santa pace delle piante belle vigorose e con delle fioriture abbondanti. Ma come mai è una tematica tanto dibattuta e spesso con argomentazioni pro o contro spesso estremamente differenti?
Prima di tutto, riflettiamo un attimo sulle orchidee. Stiamo parlando di una enorme famiglia (le Orchidaceae), che è diffusa su quasi tutto il globo (mancano giusto i Poli, i ghiacciai perenni, i mari e alcuni deserti) e che ha alle spalle milioni di anni di evoluzione in habitat estremamente diversificati fra loro entro le fasce climatiche più disparate, cosa che ha portato al proliferare di decine di migliaia di specie e al successivo intervento umano tramite la selezione di particolari linee clonali (per esempio per enfatizzare la forma, il colore, il numero di fiori, il vigore della pianta, ecc.) alla creazione di oramai centinaia di migliaia di ibridi, spesso fra più specie (avete presente il macello di ibridi fra più generi della vasta sottotribù delle Oncidiinae noti commercialmente, scorrettamente, per di più come “Cambria”?). È quindi pacifico che una simile diversità, fra specie e ibridi, si rifletta anche esigenze di coltivazione differenti, fertilizzazione compresa. Un altro aspetto da considerare è che uno dei primi equivoci in cui il coltivatore amatoriale si imbatte è la frequente definizione di fertilizzante come di cibo per le piante; diciamo che è quanto meno scorretta: il “cibo” delle piante è lo zucchero (del glucosio) prodotto tramite la fotosintesi (quando sono organismi fotosintetici e alcune orchidee non lo sono o non lo sono esclusivamente, ma questa è una storia a parte). Nella loro complessa fisiologia, fra creazione di nuovi tessuti, accrescimento e mantenimento di quelli che ci sono già e la gestione di un complessissimo insieme di molecole e di reazioni chimiche (compresa la fotosintesi stessa!), la pianta ha bisogno di qualcos’altro, cioè di tutta una serie di elementi chimici che le orchidee assorbono dall’ambiente circostante e che noi coltivatori cerchiamo di fornire loro; ed è qui che entra in gioco la fertilizzazione.

In commercio ci sono moltissime formulazioni; un coltivatore per poterle valutare almeno sommariamente deve prima di tutto leggerne l’etichetta dove ne è riportato il titolo, che altro non è che la percentuale (in termini di massa) di un dato elemento. Quindi, per esempio, un fertilizzante dal titolo NPK 20-20-20 vuol dire che ha un contenuto teorico del 20% di azoto (N), 20% di fosforo (P)e 20% di potassio (K), più ulteriori elementi riportati in etichetta. Leggere l’etichetta è il primo importantissimo passo per capire, teoricamente, le potenzialità di un fertilizzante: vi sono indicati, per legge, almeno i componenti del prodotto, i chelanti usati (delle molecole che mantengonoassorbibili per la pianta alcuni elementi) e l’intervallo di pH in cui una soluzione con quel prodottoè stabile chimicamente, evitando la formazione di molecole insolubili in acqua e non assorbibili dalla pianta.

 

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Andiamo per gradi. Probabilmente un NPK 20-20-20 è il concime dalla formulazione più nota fra i coltivatori, il classico “concime bilanciato” buono per tutte le occasioni. Problema: perché si dice bilanciato e perché andrebbe bene un po’ per tutto? Diciamo che, come molti copia/incolla/traduci male sul web, si è distorto il concetto originale e ha assunto un significato tutto nuovo. Un NPK 20-20-20 è bilanciato semplicemente nel suo rapporto fra azoto, fosforo e potassio, nel senso che la percentuale in rapporto alla massa è omogenea, ma questo non vuol dire che sia necessariamente bilanciato per le esigenze delle nostre orchidee (anzi, ci sono una mole consolidata di studi che dimostra tutt’altro, ma ci torneremo più avanti). Un altro concetto errato che ritorna abbastanza spesso è la distinzione fra macroelementi e microelementi, come se “macro” e “micro” avessero quasi un valore di importanza. Questa distinzione si riferisce semplicemente alla concentrazione ditale elemento nei tessuti delle piante; quindi, escludendo idrogeno, carbonio e ossigeno, che la pianta ottiene dall’aria e dall’acqua, molto presenti nei tessuti, seguono i famosi azoto, fosforo, potassio, calcio, magnesio e altri. Seguono poi altri elementi in concentrazioni molto più basse (a differenza dei macroelementi che si calcolano in punti percentuale, questi ultimi vengono calcolati in parti per milione) e vengono detti per questo microelementi, come per esempio cloro, ferro, boro, manganese… Anche qui, “poco” non vuol dire per questo “meno importante”: per fare un esempio, il molibdeno, presente nei tessuti vegetali in concentrazioni bassissime (in media per ogni atomo di molibdeno ce ne sono almeno sessanta milioni di idrogeno e un milione di azoto) è fondamentale nella fisiologia della pianta, dal ruolo in enzimi che consentono di assorbire, per esempio, l’azoto (praticamente uno dei principali processi della pianta), alla presenza in un vasto insieme di molecole per le attività fisiologiche più disparate.
Prima di parlare dei fertilizzanti ci sono alcuni aspetti da considerare: l’assorbimento dei vari elementi da parte della pianta è determinato da vari fattori (temperatura ambientale, stato vegetativo della pianta, modalità di applicazione, substrato o supporto di coltivazione utilizzato, pH della soluzione fertilizzante, fenomeni di interazione fra i vari elementi come sinergismo/antagonismo, ecc.); questo per dire quanto un’operazione apparentemente ristretta alla semplice scelta del prodotto da utilizzare sia in realtà molto più vasta e complessa. Questo è da tenere a mente, per esempio, quando fra amici, pur usando lo stesso prodotto negli stessi dosaggi su piante molto simili spesso si possono ottenere risultati anche molto diversi.
In passato quando si parlava di fertilizzazione (ma largamente ancora oggi) si adottava un approccio quasi “meccanico”, nel senso che pur riconoscendo la complessità di un organismo vivente, si pensava che dando la tal cosa nel tal modo si potesse risolvere un problema di crescita o spingere la pianta a vegetare in un certo modo, e ancora oggi si cita in maniera molto restrittiva la famosa “Legge di Liebig”: «La crescita dei vegetali è determinata dall’elemento che è presente in quantità minore rispetto ai fabbisogni»; oppure la “Legge di Shelford”: «Ogni organismo di fronte ai fattori ambientali ha un intervallo di tolleranza compresi tra un minimo e un massimo entro cui si colloca il suo optimum ecologico». Di fatto la ricerca è andata avanti rispetto a queste formulazioni ottocentesche e primo novecentesche. Per esempio, in un libro del 2016 si dice in maniera abbastanza sconsolata che «[…] nonostante molte decadi di lavoro scientifico e molte di più di dati raccolti su base teorico-empirica, la gestione sostenibile della fertilizzazione richiede soluzioni articolate e spesso non definibili univocamente. Il sistema suolo-pianta è un sistema ampiamente studiato, ma non ancora completamente conosciuto (figuratevi quello fuori suolo, nota mia) perché governato da meccanismi fisici, chimici e biologici di grandissima complessità. […] Ma interpretazioni troppo semplificate o troppo commerciali della famosa Legge di Liebig hanno condotto a pratiche approssimative […] Riferirsi a dosi fisse e riproposte annualmente uguali a quelle dell’anno precedente è una pratica superata».
Ma quali sono queste dosi fisse riproposte annualmente e a quali concimi ci si riferisce per le orchidee? Se in ambito internazionale, specialmente negli ultimi anni, ci sono e si parla di una pletora di prodotti e formulazioni differenti, in Italia si è rimasti molto ancorati a una impostazione anni Settanta, complice sia il fatto che in ambiente orchidofilo si tende a non tradurre contributi in lingua straniera (non solo quelli di iperspecialistiche riviste scientifiche, ma già solo di quelle riviste orchidofile molto famose come «Orchids» dell’American Orchid Society, «The Orchid Digest», «Die Orchidee» della Deutsche Orchideen-Gesellschaft e molte altre). Per fare un esempio concreto, un modello di fertilizzazione “a calendario” è grosso modo questo: in primavera si usano dei fertilizzanti ad alto titolo di azoto, spesso un 30-10-10 da primavera fino all’inizio dell’estate, per poi passare a un concime “bilanciato”, il classico 20-20-20 fino a inizio autunno, per poi introdurre o concimi con alto titolo di fosforo e basso titolo di azoto e potassio, come un 10-30-10 (o perfino un 10-52-10) oppure, più frequentemente, un concime a basso tenore di azoto, molto fosforo e un maggiore titolo di potassio rispetto all’azoto, come un 10-30-20, per infine smettere in inverno, oppure dare molto di rado un 20-20-20 in attesa della primavera. Il ragionamento dietro un calendario come questo è che in primavera fino all’estate si cerca di promuovere le nuove vegetazioni con una maggiore concentrazione di azoto, mentre in autunno (o prima della fioritura in generale) si cerca di dare un maggiore apporto di fosforo per indurre la fioritura (se autunnale), mentre prima del riposo o rallentamento vegetativo si tende a dare maggiormente il potassio nella speranza che fortifichi maggiormente la pianta per l’inverno. Il problema è che non è propriamente così scontato che per le nostre piante vada bene così. Intendiamoci, un simile regime non le ammazza di certo e molti coltivatori usano tranquillamente solo il 20-20-20, però va precisato che se si esagera con forti dosi di azoto in primavera si rischia di produrre vegetazioni sì molto grosse e apparentemente meravigliose, ma purtroppo maggiormente soggette ad attacchi di insetti, funghi e batteri. Allo stesso modo forti dosi di fosforo non inducono automaticamente la fioritura, mentre alte dosi di potassio possono rallentare o inibire l’assorbimento di vari elementi molto preziosi per la pianta in vista del riposo o del rallentamento vegetativo invernale (vi ricordate il sinergismo/antagonismo accennato prima?). Rassicurante, vero? Anche se questi aspetti sarebbero da approfondire maggiormente, per motivi di spazio passiamo oltre con il dibattito più attuale. Gli anni Ottanta e soprattutto i Novanta e i primi Duemila sono stati estremamente produttivi dal punto di vista della fertilizzazione delle orchidee. Una data che potremmo definire come molto significativa è il giugno 2003, quando sulla rivista dell’American Orchid Society («Orchids») si pubblicò un articolo estremamente interessante e comparve sulle scene orchidofile la celebre “formula MSU”. Questo articolo è il frutto di vari filoni di studio che avevano preso piede dalla fine degli anni Ottanta (anche) presso la Michigan State University (ecco il perché MSU): di fatto si sosteneva non solo che il fabbisogno di fosforo delle orchidee fosse generalmente basso e che potesse indurre a fioritura solo in casi di precedente carenza, ma che un eccessivo apporto di azoto non solo potesse causare problemi ai nuovi tessuti vegetali (come accennato prima), ma che inibisse una abbondante fioritura. Come formula bilanciata per le orchidee veniva proposto un 13-3-15 con aggiunta di calcio e magnesio; era l’inizio di una nuova generazione di fertilizzanti che perdura felicemente ancora oggi. Per la verità già dagli anni Ottanta una multinazionale dei concimi aveva autonomamente sviluppato una linea di fertilizzanti messa in commercio almeno dal 1994 e chimicamente molto simile alla formula MSU, anche come rapporto nella titolatura (15-5-15), sempre con calcio e magnesio che tutt’ora usiamo in associazione, il CalMag (disponibile come grower, 15-5-15, e finisher, 13-5-20). Un altro aspetto poco considerato è il dosaggio: spesso si va a spanne con tot grammi/litro (di solito 1 grammo/litro), oppure sipreferisce per prudenza dare un dosaggio di un terzo o un quarto rispetto alla dose in etichetta, cosa che però porta a una somministrazione approssimativa. In associazione, più che basarci sulle dosi di etichetta, preferiamo usare il conduttimetro. Per chi non lo conoscesse è uno strumento che misura la conduttanza della soluzione fertilizzante, espressa in microSiemens (μS/cm). In pratica, più si aggiunge fertilizzante in una soluzione, più facilmente questa soluzione si lascia attraversare dall’elettricità, aumentandone la conduttanza e dando così un certo risultato sul display del conduttimetro. Di fatto è un approccio più empirico, basato sull’osservazione della reazione della pianta a un certo ammontare di concime, cosa che ci ha permesso di stabilizzarci nel tempo a una concentrazione di 180-220 μS/cm di CalMag, partendo da acqua di osmosi inversa e non di rubinetto, spesso con una conduttanza nettamente superiore (a Bologna superiamo tranquillamente i 500 μS/cm, in più buona parte dei sali disciolti sono costituiti da calcio in formanon assorbibile dalle piante, nonché responsabile della famosa patina bianca che si forma sul substrato delle piante di chi le innaffia solo con acqua di rubinetto). Ovviamente ci sono delle eccezioni: ci sono alcune specie che vogliono concentrazioni più basse, altre che ne vogliono di sensibilmente più alte (chiunque coltivi Catasetinae e ibridi derivati conosce perfettamente il loro “appetito famelico”). Somministriamo inoltre il fertilizzante sia tramite bagnatura, sia tramite nebulizzazione. E a che cadenza dare il fertilizzante? Personalmente propendiamo per darne poco (i famosi 180-220 μS/cm) ma costantemente; per evitare accumuli di sali nel substrato di norma ogni terza bagnatura diamo un’abbondante sciacquata con sola acqua di osmosi inversa. Di fatto, sia tramite vari studi, sia empiricamente abbiamo notato come fosse meglio fertilizzare poco ma costantemente, invece di somministrarlo ogni quindici/trenta giorni come spesso si usa. Non fertilizziamo durante l’inverno le piante che chiaramente vanno in riposo vegetativo o in forte rallentamento, mentre quelle che procedono spedite come se nulla fosse continuiamo a fertilizzarle regolarmente (un esempio molto chiaro sono gli ibridi di Phalaenopsis). Non usiamo però esclusivamente il CalMag: ci sono soci che preferiscono integrarlo con del solfato di magnesio ogni 15 giorni in media e, durante la stagione di crescita, con del nitrato di calcio sempre ogni 15 giorni (di fatto, somministrando maggiormente del calcio e magnesio, comunque già presente nel CalMag). Inoltre integriamo ulteriormente con un concime organico (nonché biostimolante), a base di estratti a freddo di alghe (Ascophyllum nodosum), sempre ogni 15 giorni. Perché usare un biostimolante? E poi cos’è e cosa comporta per le piante? Questo ulteriore aspetto lo tratteremo in un prossimo incontro, sono le nuove frontiere della fertilizzazione!
Articolo: Francesca Castiglione e Daniel Klein

Foto: Francesca Castiglione e Giulia Cò

 

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MAIL ALLA REDAZIONE DEL 12/03/2020 da un lettore (LV)

“Buongiorno, vi scrivo per segnalarvi un errore macroscopico nell’articolo LA FERTILIZZAZIONE DELLE ORCHIDEE, (n°4 pagina 10).

Un concime 20/20/20 non può affatto essere un concime bilanciato, in quanto l’azoto effettivamente disponibile è 20, ma per quanto riguarda il fosforo, il valore riportato in etichetta di un prodotto commercializzato in Europa, deve essere moltiplicato per 0,43, e il valore del potassio deve essere moltiplicato per 0,83, in quanto fosforo e potassio vengono espressi come ossidi, quindi facendo le debite operazioni, otteniamo il vero titolo del concime: 20/8,7/16,6, oserei dire: altro che bilanciato!!!

Purtroppo è facilissimo trovare e leggere nozioni false, sarebbe quindi auspicabile che una rivista come questa pubblicasse solo certezze […omiss]. A supporto e ad esempio di quanto ho scritto vi allego la scheda del Calmag grower. Sicura della vostra attenzione e competenza, attendo un’errata corrige sul prossimo numero, così da non diffondere notizie false. https://icl-sf.com/it-it/products/ornamental_horticulture/peters-excel-calmag-grower/

Cordiali saluti LV”

RISPOSTA DALLA REDAZIONE:

“Muggiò, 15/03/2020

Buongiorno,

[…omiss]

Comprendiamo le sue preoccupazioni e ci teniamo a tranquillizzarla che il pericolo di un macroscopico errore non sussiste: per legge italiana e per convenzione industriale internazionale (tranne in alcuni paesi come l’Australia e la Nuova Zelanda), i titoli in fosforo e potassio dei concimi sono espressi normalmente in ossidi. Non è ci chiaro il perché di dover smembrare le molecole per ottenere la quantità esatta di fosforo o potassio presente: sarebbe semplicistico e ingannevole pensare, per esempio, che le quantità di quegli elementi “puri” e non in ossidi o altre molecole fossero direttamente o meglio assorbibili dalla pianta.

Tanto per fare un esempio, per il fosforo, la fonte più facilmente assimilabile sono proprio delle molecole, [H2PO4] e [HPO4]2-. Casomai sarebbe il caso di ragionare sulle quantità somministrate/quantità assorbite dalla pianta di un dato elemento ma sarebbe un discorso estremamente vasto, complesso e fuori traccia.

Concime bilanciato è inoltre una semplice definizione di comodo maturata in ambito orticolturale e commerciale che bene si presta a interpretazioni fuorvianti, non a caso la relazione presentata durante VareseOrchidea 2019 insisteva molto su questo punto, così come si è trattato della questione di conversione degli ossidi per calcolare il singolo elemento ma, durante la trasposizione dell’articolo si è scelto di non inserirla, insieme ad altri argomenti trattati, per non appesantire la discussione, comunque di carattere introduttivo, con un argomento estremamente marginale e specialistico, casomai meritevole di una trattazione a parte.

Ci auguriamo che questa risposta acquieti i suoi dubbi e rimaniamo disponibili per eventuali approfondimenti e ulteriori confronti, ringraziando inoltre per l’attenzione che dimostra verso la nostra rivista Orchis.

Lo staff Alao.

Johnny Allegra”

 

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