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Riassunto: Webinar di Gioele Porrini di Varesina Orchidee, organizzato dall’ALAO e tenutosi il 21 marzo 2021. Gioele racconta collaborazioni, inganni, mimetismo, in rapporti a due, a tre e a quattro dove gli attori, insieme alle orchidee, sono funghi, insetti, alghe,npiante, roditori e persino l’uomo.

Abstract: Webinar by Gioele Porrini of Varesina Orchidee, organized by ALAO and held on March 21, 2021. Gioele talks about collaborations, deceptions, mimicry, in two, three and four-way relationships where the actors, together with the orchids, are fungi, insects, algae, plants, rodents and even humans.

Simbiosi è un termine mutuato dalla biologia che ha origine dal greco σύμβιος “sýmbios”, letteralmente “vivere insieme”, e per estensione “compagno”: due organismi sono in simbiosi quando vivono mutualmente uno i servigi dell’altro, cioè quando esiste una relazione mutualmente vantaggiosa; questo fenomeno è molto diffuso in natura, anche nelle orchidee.

Simbiosi con i funghi

Un “primo tipo” di simbiosi, che nasce per così dire alle origini delle piante, è la simbiosi tra i semi delle orchidee e i funghi. Infatti, i semi delle orchidee si distinguono chiaramente dagli altri semi vegetali: al microscopio si presentano con degli embrioni costituiti da un pallino verde con intorno un tegumento tipo carta; i semi delle orchidee sono infatti embrioni senza tessuto nutritivo, quindi non sono in grado di germinare da soli e di vivere in modo autonomo (almeno nelle primissime fasi). Questo perché le orchidee sono perlopiù epifite, specialmente quelle tropicali, cioè vivono sugli alberi, e per vivere (e nascere) lì si sono dovute evolvere in modo tale che il loro seme fosse in grado di rimanere sugli alberi. Immaginate che il seme di un’orchidea fosse grosso e pesante come una castagna: non rimarrebbe sull’albero, finirebbe nel sottobosco e morirebbe. Perciò, per rimanere sull’albero le orchidee hanno fatto un patto con madre natura: i semi devono essere in grado di volare, quindi essere molto leggeri e per fare questo l’evoluzione ha eliminato tutto ciò che appesantisse, prima di tutto la pesante e ingombrante parte nutritiva. Per questo motivo da noi le orchidee non possono essere seminate come le più comuni piante: il seme semplicemente morirebbe subito; è necessaria invece la semina in vitro. Ma allora in natura?
Questo piccolo cappello introduttivo è necessario per arrivare al nocciolo della questione, i funghi: le orchidee hanno dovuto allearsi con questi microrganismi che non sono piante per poter affrontare la loro prima fase di vita, la fase eterotrofa. In questa fase le orchidee non sono autonome dal punto di vista alimentare, cioè non sono in grado di fare la fotosintesi: non producono gli zuccheri che permettono loro di crescere e vivere. In questa fase le piccole piantine ricevono il nutrimento proprio dai funghi: questi sono organismi eterotrofi, a differenza delle piante, quindi non producono lo zucchero in base alla fotosintesi main base alla digestione, ovvero trasformando i composti organici di cui si cibano in natura.

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GIOELE PORRINI

Appassionato di orchidee tropicali fin dall’età di 17 anni, laureato in scienze agrarie all’Università degli studi di Milano, è l’anima di Varesina Orchidee, vivaio specializzato nella coltivazione e vendita delle orchidee tropicali botaniche e ibride

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I semi delle orchidee sono composti da pochissime cellule, l’embrione è racchiuso dal tegumento e non mostra tessuti nutritivi. Foto scattata allo stereomicroscopio, semi di Cattleya
I semi delle orchidee sono composti da pochissime cellule, l’embrione è racchiuso dal tegumento e non mostra tessuti nutritivi. Foto scattata allo stereomicroscopio, semi di Cattleya.

 

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Vivendo in simbiosi con i piccoli germogli delle orchidee esiste un apporto unilaterale tra fungo e pianta, cioè la giovane orchidea riceve gli zuccheri dal fungo, in attesa di svilupparsi e fare la fotosintesi autonomamente.
La simbiosi, quindi, è un processo di mutuo vantaggio tra due organismi: in questo caso il fungo dà alla pianta il nutrimento necessario per vivere e crescere e la pianta fornisce una dimora sicura al fungo prima con il seme, poi con il germoglio e poi, via via che la simbiosi procede e la pianta cresce, il fungo viene segregato e continua a vivere a livell delle radici. Più avanti vedremo che in alcune specie questa simbiosi è meno sviluppata e in altre più marcata.
Ci sono stati grandissimi dibattiti riguardo a questo fenomeno, soprattutto per determinare a che livello il rapporto tra orchidea e fungo si può definire veramente simbiosi o per stabilire se il fungo fosse un parassita dell’orchidea o perfino il contrario.
Il parassitismo è un fenomeno biologico nel quale un organismo vive alle spese dell’altro, ovvero un rapporto unilaterale. Alcuni biologi pensano che la prima fase di vita delle orchidee sia di parassitismo; in realtà il fungo utilizza la struttura che lo accoglie per protezione e per la sussistenza dando in cambio lo zucchero che all’orchidea serve per vivere e crescere. Non si è ancora giunti a una conclusione definitiva se sia simbiosi o parassitismo, ma è sicuramente un rapporto fondamentale e di fatto la pianta ha bisogno di questa fase di dipendenza con il fungo. Fase comunque velocissima perché, una volta che l’orchidea ha prodotto la sua prima foglia può iniziare la fotosintesi e quindi non ha più bisogno del fungo e lo segrega nelle radici.
Ora, una precisazione: gli apici vegetativi delle radici delle orchidee sono verdi e quindi fanno fotosintesi, ma la radice in sé fa fotosintesi, e quindi produce zuccheri, in maniera minima nell’economia generale delle pianta (salvo alcuni casi particolari); le radici sono maggiormente specializzate nella… respirazione, un complesso insieme di processi metabolici che non produce zuccheri, ma li consuma; anche se le foglie sono anch’esse protagoniste di questi processi, sono però estremamente specializzate nella fotosintesi. Le radici pompano acqua e gas disciolti e le foglie producono zucchero liberando acqua e gas nell’atmosfera, come se fossimo in un’azienda dove ogni reparto fa il proprio lavoro.
Per questo una volta che spuntano le foglie la pianta non ha più bisogno del fungo come prima e lo manda dove può averne ancora bisogno (i questi funghi a livello radicale rimangono dei simbionti preziosissimi).

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Fino al 1922 non si conosceva l’esistenza della simbiosi tra i funghi e i semi delle orchidee: infatti questo particolarissimo fenomeno era sconosciuto; l’unico modo per riprodurre allora le orchidee era tramite talee: le orchidee erano creature affascinanti, ma non si sapeva ancora come seminarle. Nel 1922 Noël Bernard fu il primo a scoprire il rapporto di simbiosi tra i funghi e le orchidee, mentre Theodore Luqueer Mead fu il primo a mettere in pratica il rapporto di simbiosi in laboratorio.
Una volta capito il motivo per cui i semi avevano bisogno dei funghi si scoprì che mettendo i semi su un composto zuccherino questi germinavano, quindi bastava avere una capsula di orchidee per generare potenzialmente milioni di piantine.
Nel 1856 nacque il primo ibrido di orchidee. Dal 1856 al 1922 le orchidee venivano seminate in una capsula di Petri con il fungo già coltivato: solitamente il fungo era una specie del genere Rhizoctonia (ricordiamo
che questo genere è stato ed è tutt’ora comunque oggetto di numerose revisioni tassonomiche, e ora diviso fra numerosi altri generi). Prima era coltivato il fungo, poi i semi erano disposti sulla coltura fungina e lì germinavano. Nel 1922 Theodore Luqeer Mead scoprì che il fungo passava lo zucchero ai semi e quindi eliminò il fungo da quelle colture, complicate da gestire: nascevano così i composti a base di zuccheri e sali minerali per la coltivazione. Ancora oggi si usa acqua, elementi vari, carbone attivo per assorbire i polifenoli nella fase iniziale di germinazione, substrato di coltura apposito in polvere, materiale gelificante e, ovviamente, zucchero.
Nel 1928 in Australia fu scoperto un rapporto a tre, ovvero l’orchidea Rhizanthella gardneri che dipende da un fungo, il Thanatephorus gardneri, che dipende a sua volta da una pianta, la Melaleuca uncinata.
La Rhizanthella gardneri è un’orchidea particolarissima che vive e fiorisce sottoterra senza fare fotosintesi: fu scoperta da un contadino che, lavorando un campo vergine, la dissotterrò. Il fungo vive nelle radici della Melaleuca e contemporaneamente nutre la Rhizanthella gardneri.
Questo rapporto è una simbiosi proprio perché il fungo nutre l’orchidea: il vantaggio per la radice è quello di avere un fungo colonizzatore che aumenta la superficie di assorbimento e rende indisponibile la radice verso altri funghi parassiti; allo stesso tempo il fungo ha la protezione necessaria dalle radici. Le piante instaurano volentieri rapporti simbionti con i funghi sulle radici perché hanno ottimi vantaggi.
Ci sono orchidee che vivono grazie ai funghi anche in fase adulta, per esempio la Neottia nidus-avis che vive nelle zone temperate: non ha tessuti fotosinteticamente attivi, vive sottoterra e la vediamo solo quando fiorisce, emergendo dal suolo con le sue strutture riproduttive. Si comporta come i funghi, che vivono tutto l’anno, ma che vediamo solo in autunno quando i loro carpofori, cioè le loro strutture riproduttive, escono dalla terra e noi li raccogliamo.

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La simbiosi anche in fase adulta vale, per rimanere nelle zone temperate, anche per i generi Corallorhiza, Epipogium, Limodorum (ma ce ne sono anche altri, distribuiti fra le varie latitudini). Sono orchidee che vivono di un rapporto simbionte strettissimo perché nella loro evoluzione, se mi passate la semplificazione, non sono state in grado di isolare i funghi nelle radici, a differenza di molte loro cugine: non essendo in grado di fare la fotosintesi da sole, ospitano i funghi in tutte le loro strutture per massimizzare l’apporto di zuccheri. Le altre orchidee invece hanno isolato i funghi nelle radici facendo poi la fotosintesi nelle foglie e, quindi, sintetizzando zuccheri autonomamente; il fungo ha un ruolo comunque importantissimo, ma minoritario rispetto ai generi analizzati prima.

gioele3Angraecum sesquipedale e il suo insetto impollinatore Xanthopan morganii praedicta.

Simbiosi con gli insetti

Abbandoniamo i funghi per vedere cosa fanno le orchidee con altri esseri viventi, in particolare con gli insetti. Charles Darwin studiò la simbiosi tra gli insetti e le orchidee. Pochi sanno che nel 1862 scrisse un libricino, tradotto da Giovanni Canestrini in italiano nel 1883 con il titolo I vari apparecchi mediante i quali le orchidee britanniche e straniere sono impollinate dagli insetti. Perché Darwin cominciò a studiare le orchidee così nello specifico? La sua curiosità nacque dallo studio di un’orchidea scoperta in Madagascar, l’Angraecum sesquipedale, di cui si era innamorato: un’orchidea che emette il suo profumo solo di notte e che ha uno sperone nettarifero di 27,5 cm. Darwin, che era un ottimo osservatore, aveva dedotto dalla forma dell’orchidea che avrebbe dovuto esserci un insetto notturno con una spirotromba lunga come lo sperone affinché potesse prelevare il nettare sul fondo; nessuno però l’aveva mai visto. In quel tempo Darwin non era ben visto in quanto aveva pubblicato da poco (nel 1859) il suo saggio L’origine delle specie dove propugnava l’evoluzione e non la creazione delle forme di vita da parte di un’entità superiore: questa teoria era considerata scandalosa e fonte di numerose controversie negli ambienti intellettuali vittoriani.

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Solo dopo la sua morte si scoprì, nel 1903, la falena Xanthopan morganii praedicta: praedicta proprio perché
“preannunciata” dall’ipotesi di Darwin. Si tratta di uno sfingide, che vive di notte e ha una proboscide lunga 27,5 cm, esattamente come lo sperone dell’Angraecum, ed è l’impollinatore di questa orchidea. Il fiore profuma solo di notte proprio perché il suo insetto impollinatore è una falena, un insetto notturno, e sarebbe un inutile spreco di energia produrre il profumo anche di giorno!
Darwin era rimasto talmente affascinato dal rapporto tra orchidee e insetti che nelle ultime pagine del suo libro scrive: «Io non ho mai trovato nel mio percorso pianta più interessante delle orchidee». Osservando le orchidee, aveva capito quanto mirabile è la precisione di queste piante, che gli avevano permesso di fissare l’ultimo tassello della sua teoria dell’evoluzione e di renderle cruciali per la storia della scienza.
Tutto questo dimostra come le orchidee si sono co-evolute con gli insetti, una storia lunghissima di migliaia di anni dove piante e insetti si sono evoluti insieme per mutuo vantaggio… o, forse, non sempre.
Come abbiamo visto, le orchidee hanno investito molto della loro storia evolutiva in uno strettissimo rapporto con gli insetti per la riproduzione: gli insetti ne ricavano vantaggio grazie al nettare generosamente offerto? No: la maggior parte delle orchidee non produce nettare ma, per essere impollinate, ingannano i poveri insetti con, direbbe Darwin, «vari apparecchi».
Il più celebre espediente è forse il mimetismo sessuale, che si nota, per esempio, nel genere Ophrys. Prendiamo l’Ophrys speculum: quest’ultima imita la femmina dell’ape Dasyscolia ciliata nella forma, nei colori e negli odori, poiché emette anche feromoni molto simili a quelli emessi dall’insetto femmina pronta per accoppiarsi; imita l’insetto in tutto per attirare i maschi su di sé. L’ape, pronta all’accoppiamento, va sul fiore convinta che sia una femmina, prende il polline e subito dopo, dimenticandosi dell’inganno, si sposta ingannata da un altro fiore con lo stesso intento di prima, impollinandolo incidentalmente.
Ophrys speculum
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Ophrys speculum
e il suo insetto impollinatore Dasyscolia ciliata

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La Myrmecophila tibicinis è una bellissima orchidea sudamericana coltivabile anche in serra che vive in simbiosi con le formiche che vivono nei suoi pseudobulbi cavi. Il suo nome deriva da μύρμηξ “mýrmex” (formica) e φιλία “philía” (amicizia, affetto), letteralmente: colei che è amica delle formiche; infatti quando la pianta è scossa (da un erbivoro o da una qualsiasi fonte di disturbo) le vibrazioni fanno uscire dagli opercoli alla base degli pseudobulbi le formiche, che mordono il malcapitato per difendere la pianta. In cambio la pianta fornisce la protezione alle uova e alle larve delle formiche nei suoi pseudobulbi cavi, di solito esposti al sole, e quindi belli caldi: vengono usati come incubatrici.
Vediamo ora un altro rapporto a tre, in questo caso tra un’orchidea, gli insetti e una pianta, il Platycerium madagascariense. Il Platycerium è un genere di felci epifite costituito da circa 20 specie, alcune non coltivabili facilmente dagli appassionati perché dalle necessità molto particolari.
Questa specie malgascia ha foglie sterili, che aderiscono al tronco via via seccandosi fino a formare una sacca di materiale organico in via di decomposizione; la Cymbidiella pardalina vive all’interno di queste sacche. Le fronde dritte e sterili sono un ottimo ancoraggio per queste Cymbidiella rhodochila è ora sinonimo di Cymbidiella pardalina, Schomburgkia tibicinis è ora sinonimo di Myrmecophila tibicinis orchidee che vivono solo lì: non sono facilissime da coltivare proprio per questo motivo. In questa simbiosi a tre ci sono anche le formiche; Marcel Lecoufle, grande viaggiatore ed esperto di orchidee africane e malgasce, oltre che venditore di orchidee, ha raccontato in un suo libro che, cercando di togliere un’orchidea da un grosso esemplare di felce fu attaccato dalle formiche. In questo caso le formiche hanno ben due strutture protettive, ambedue le piante, ma non è ancora del tutto noto il rapporto tra la Cymbidiella pardalina e il Platycerium madagascariense: sembra che il Platycerium produca anche dei composti che favorirebbero lo sviluppo radicale della Cymbidiella, facendola crescere sana e forte, e la felce trarrebbe vantaggio dalle formiche che la difendono.

Simbiosi con le alghe

Arriviamo a un nuovo tipo di simbiosi, il rapporto tra le orchidee e le alghe, esseri che mai immaginiamo che abbiano un rapporto con le orchidee, più specificatamente con le orchidee afille, vale a dire quelle che non hanno foglie, come i generi Chiloschista, Microcoelia e Dendrophylax.
Sono delle orchidee meravigliose molto ricercate e non sono molto comuni in coltivazione.
Cosa hanno di incredibile queste orchidee senza foglie? Vivono di sole radici. Normalmente le radici sono organi deputati ad assorbire il nutrimento e l’acqua e ad ancorare la pianta, ma non fanno la fotosintesi, oppure fotosintetizzano in misura minima rispetto all’apparato fogliare.
In questo genere però le radici svolgono anche il lavoro delle foglie, ma come e perché? Si sono evolute così perché si mimetizzano per evitare di essere brucate dagli erbivori e l’assenza delle foglie ha portato allo sviluppo di microalghe nelle radici come dei centri di fotosintesi aggiuntivi. Le alghe fanno la fotosintesi sintetizzando gli zuccheri che vengono poi captati dalle radici; queste ultime danno alle alghe riparo dai raggi UV e dalla disidratazione: quindi non bisogna assolutamente usare alghicidi nella coltivazione di queste orchidee.
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Cymbidiella rhodochila è ora sinonimo di Cymbidiella pardalina

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La più famosa di queste orchidee afille è senza dubbio l’orchidea fantasma, il Dendrophylax lindenii, non facile da individuare per quasi tutto l’anno perchè ben mimetizzato fra muschi e licheni, salvo che durante la fioritura: produce un fiore bianco all’apice dello stelo che sembra fluttuare nell’aria, come un piccolo fantasmino bianco. Vive nelle paludi delle Everglades in Florida sui tronchi dei cipressi calvi delle paludi, i Taxodium disticum, piante a loro volta affascinanti per via delle radici sommerse nell’acqua che sopravvivono grazie agli pneumatofori,radici specializzate nella… respirazione. Sono piante che si innalzano in verticale dalle acque e che permettono l’apporto di ossigeno al resto dell’apparato radicale sommerso.

Simbiosi tra orchidee, insetti, alberi e mammiferi

A questo punto la cosa si complica ancora di più perché aumentano i livelli di simbiosi: possiamo fare una specie di telenovela con tanti attori; tutto ciò fa diventare la cosa interessantissima. Partiamo dalla Cattleya wallisii: siamo nella foresta amazzonica del Brasile su un meraviglioso albero di Bertholletia excelsa (noce del Brasile) che fa un frutto grosso a forma di noce che contiene tante piccole noci. Poi c’è un roditore di medie dimensioni, l’agutì, un mammifero del genere Dasyprocta, che si nutre del frutto di questo albero. Ha la curiosa abitudine di raccogliere tanti frutti, di cibarsi solo di alcuni e di conservarne altri per i tempi di magra molto lontano dalla pianta di origine. Nella sua folle raccolta si dimentica di molti semi sotterrati nella foresta e che danno origine a molti altri alberelli.

I due non possono fare a meno uno dell’altro, Polyradicion lindenii è ora sinonimo di Dendrophylax lindenii in quanto uno si ne ciba dell’altro e questo riesce a spargere i propri semi in tutta foresta proprio attraverso la raccolta del primo, aumentando così la possibilità di diffusione. Ecco spiegato il primo di livello di relazione. Veniamo poi alla Cattleya wallisii, impollinata da un’ape maschio che si chiama Eulaema mocsaryi, mentre la femmina impollina la noce del Brasile, nutrendosi del suo nettare. Questo rapporto a quattro è veramente affascinante: se un solo elemento di questo sistema dovesse venire a mancare, tutto questo castello crollerebbe e ci sarebbe l’estinzione di quattro specie. Infatti se mancasse la Bertholletia excelsa morirebbe l’agutì e la femmina di Eulaema mocsaryi. Senza la femmina la specie si estinguerebbe e così, mancando il maschio, sparirebbe anche la Cattleya wallisii. In natura questo sembrerebbe essere l’unico rapporto di simbiosi a quattro dove tra i partecipanti troviamo un’orchidea.

Una riflessione: simbiosi con l’uomo?

In questo equilibrio c’è forse un ultimo tassello che non è sfuggito all’astuzia delle orchidee: l’uomo. Negli ultimi secoli le orchidee hanno sempre più fatto parlare di sé: tantissimi personaggi della storia hanno dedicato il loro tempo, talvolta la loro vita, alle orchidee: pensate agli ibridatori che vogliono lasciare un segno delle loro creazioni, o ai coltivatori che costruivano serre per ospitare le orchidee, talvolta immense se pensiamo alla celebre serra di William George Spencer Cavendish, VI duca di Devonshire, a Cattleya eldorado è ora sinonimo di Cattleya wallisii alta come un palazzo di sei piani!

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Cattleya eldorado è ora sinonimo di Cattleya wallisii

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Oppure pensiamo al fascino esercitato sui botanici, per esempio Carl Ludwig Blume che volle scoprire quelle che credeva candide farfalle notturne, attraversando un fiume di notte, per poi scoprire la Phalaenopsis amabilis (proprio per questo motivo il genere Phalaenopsis si chiama così, letteralmente: dall’aspetto di una farfalla notturna). Sembrerebbe quasi che le orchidee siano riuscite ad avere la meglio anche su quello che si considera l’animale più evoluto su questo pianeta, l’Homo sapiens sapiens.
Fascino che è persino sfociato in una febbre scottante, come l’orchidmania del XIX secolo che ha infiammato gli animi dei vittoriani facendo fare pazzie ai cacciatori di orchidee che rischiavano la vita per scoprire nuove specie, poi acquistate a prezzi talvolta esorbitanti in Europa.
Possiamo dire che le orchidee hanno avuto la meglio perché l’uomo ancora oggi le ammira, le colleziona, le coltiva, le ibrida, colonizzando non solo le foreste tropicali (e non solo, tecnicamente quasi tutto il globo terrestre) ma anche le case e le serre dell’uomo, e questo ci fa capire come le orchidee riescono a tener avvinti a sé non solo gli insetti, le piante e gli animali, ma anche gli esseri umani.
Una riflessione: orchidee, piante evolute?
Avendo parlato di tutti questi rapporti così strabilianti e millimetrici possiamo dire che in natura abbiamo di tutto: fiori che imitano insetti, alghe che vivono dentro radici di piante, funghi che vivono in semi e poi in radici e addirittura su piante intere. Tutto questo ci farebbe pensare che le orchidee siano molto evolute; anche la variabilità dei fiori conferma questo. Tuttavia: davvero ciò che è semplice è davvero primitivo ciò che è moderno è necessariamente complesso? Pensiamo per esempio alle felci che ci sono sempre state, fin prima dell’arrivo dei dinosauri: sono piante semplici senza fiore, eppure sono ancora presenti sul nostro pianeta con tante specie diffuse in tutto il mondo, oppure ai fiori di ninfea o di magnolia, considerati fra i più semplici e primitivi, ma che prosperano felicemente ancora oggi. Allora sorge una domanda: ma è veramente necessario diventare complessi come le orchidee per sopravvivere, visto che, se manca un anello così essenziale dell’evoluzione, l’estinzione è quasi del tutto certa?
Forse una risposta può venire da un confronto, arbitrario se volete, tra la Cattleya mossiae e i suoi semi leggerissimi che sono capaci di coprire anche grandi distanze con le giuste condizioni atmosferiche e l’Artocarpus heterophyllus, che produce un seme pesantissimo (anche dieci chili) che, quando cade a terra, con un tonfo sordo non si muove più da lì, germinando vicinissimo alla pianta madre. Sono due modi di vivere molto differenti, se volete, ma altrettanto efficaci, che ci consentono di ammirare le orchidee, le felci e le altre famiglie e generi vegetali ancora dopo milioni di anni dalla loro prima comparsa.

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PER SAPERNE DI PIÙ

Floyd S. Shuttleworth, Herbert S. Zim, e Gordon W. Dillon, Orchidee, piccolo atlante delle orchidee tropicali, illustrato da Elmer W. Smith, edizione italiana curata dall’Associzione Lombarda Amatori Orchidee e da Giorgio Oelker, Edagricole, Bologna, 1985.

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