Le orchidee delle praterie aride

di Alessandro Virga

Su ORCHIS Numero 2 2022, pp.20-29

Le praterie aride sono forse l’ambiente più ricco in specie di orchidee: pensate che, almeno per quel che riguarda il Piemonte, il numero di specie presenti è di circa 90 e quasi la metà di queste sono presenti nelle praterie aride.

Le orchidee delle praterie aride

 

Questo tipo di ambiente è molto importante per la biodiversità ed è stato inserito nella Direttiva 92/43/ CEE “Habitat”, che ha lo scopo di “salvaguardare la biodiversità mediante la conservazione degli habitat naturali, nonché della flora e della fauna selvatiche nel territorio europeo degli Stati membri al quale si applica il trattato” (art. 2).

Sono praterie secche, con un’esposizione in genere a sud, sud-ovest, quasi sempre su calcare o marne o terreni sabbiosi, anche se sono presenti (in misura molto minore) praterie aride con tipologie di materiali che rendono il suolo più acido.

Noi ci concentreremo in particolare su quelle con suolo calcareo perché, come sapete, la stragrande maggioranza delle nostre orchidee predilige questo tipo di suolo. Queste praterie non hanno un’origine naturale ma hanno un’origine antropica, cioè derivano da centinaia di anni di lavoro da parte dell’uomo che ha disboscato queste zone per produrre foraggio per gli animali e, in certi casi, si tratta di terreni che sono stati destinati anche al pascolo.

In Piemonte sono presenti parecchie di queste formazioni, soprattutto nelle valli alpine, dalla Valle di Susa fino a sud, nella Valle Stura, nella Valle Gesso e nella zona meridionale del Piemonte, tra l’Appennino ligure piemontese e l’alto Monferrato.

A differenza del prato, che noi vediamo verde e ricco di flora, questo è un prato “ingrassato”, spesso fertilizzato e utilizzato prevalentemente per il foraggio o per il pascolo, tagliato regolarmente, quindi tutto un altro tipo di formazione.

La naturalità delle praterie aride, la composizione del suolo, assieme all’esposizione e altri mille fattori favoriscono l’insediamento del- le orchidee. L’immagine mostra chiaramente che cosa si intende per prateria arida: vasti prati, con una tinta verde-gialla, che in estate diventano completamente gialli, con alcuni tratti addirittura scoperti e sabbiosi.

Dove si trovano le praterie aride?

La carta della distribuzione del genere Ophrys in Italia centro settentrionale, tratta dal portale iNaturalist, che riporta i dati inseriti da moltissimi ricercatori, fotografa i luoghi in cui si trova questo genere nelle nostre regioni. Questo genere è quello più specializzato nella scelta del terreno quindi, prevalentemente, le troviamo proprio nelle praterie aride e lo possiamo usare come indicatore della loro presenza.

Dalla carta si deduce che non ci sono praterie aride nella zona della Pianura Padana, così come non si trovano nelle zone molto intensamente coltivate, lo si vede bene nella zona tra Torino e Cuneo. Sono ben diffuse nelle vallate alpine, soprattutto nei fondovalle o sui versanti a sud, per esempio nella Val di Susa, tutto il Monferrato, le Langhe, l’Astigiano, l’Appennino ligure-piemontese e gran parte della Liguria.

Non ne troviamo poi a quote superiori ai 2000 metri: l’unica Ophrys che arriva a quella quota è l’Ophrys insectifera, che è quindi una specie presente anche in montagna. Il limite di altitudine delle praterie aride è intorno ai 1000-1500 metri sul livello del mare, non a causa di limiti “biologici” ma, vista l’origine antropica, è limitata alle zone in cui è intervenuto l’uomo.

Cosa ci aspettiamo di trovare in primavera in una prateria arida?

Nell’immagine sono presenti 15 Orchidaceae, che sono una minima parte di quelle che possiamo osservare visto che, in questo habitat, possiamo arrivare alla quarantina di specie (che ovviamente non troveremo tutte insieme nello stesso posto).

I mesi a cavallo tra aprile e maggio sono i migliori per godere della presenza di questo quadro impressionante. I colori e le forme sono veramente straordinari: in alto ci sono alcuni dei rappresentanti del genere Ophrys, che è il genere più diffuso nelle praterie aride, quelle visibili nell’immagine sono alcune di quelle più comuni e alcune delle più rare.

L’Ophrys fuciflora, per esempio, è tra quelle più diffuse in Piemonte, soprattutto in tutto il settore occidentale.

L’Ophrys bertolonii, in- vece, è una un’orchidea poco diffusa, con un areale abbastanza ristretto in Piemonte, essendo presente quasi esclusivamente nel settore sudorientale, nell’appennino a cavallo tra Piemonte e Liguria, nella zona di confine con Liguria, Emilia e Lombardia, ma con ricchissime stazioni.

L’Ophrys funerea è forse quella veramente più rara, piccolissima e bellissima, anche lei presente nel sud della regione.

Ophrys sphegodes, come abbiamo visto nel primo webinar di questa serie, è una tra le prime orchidee a fiorire, ed è la prima di questo genere. Ha un’ampia distribuzione, che va dal Monferrato fino a tutto il cuneese e l’alessandrino.

Ophrys apifera è un gioiello tra le Ophrys, è una piccola orchidea a fioritura tardiva, che solitamente non fiorisce prima della fine di maggio, e protrae la fioritura per tutto giugno.

In questi ultimi anni si è notato un anticipo delle fioriture, dovuto al cambiamento climatico. In questo “non inverno” che stiamo vivendo – N.d.R. il webinar si è tenuto il 3 febbraio – sono già presenti molte rosette, per esempio di Ophrys insectifera, che sono a uno stadio di sviluppo molto avanzato e quindi, anche quest’anno potrebbero esser- ci delle fioriture precoci.

Nella seconda fila sono presenti le orchidee del genere Orchis.

L’Orchis purpurea è la più diffusa e presente, a volte, è possibile osservare fioriture spettacolari con centinaia di esemplari nella stessa stazione.

L’Orchis anthropophora presenta dei fiori che assomigliano a degli omini.

Poi abbiamo l’Orchis militaris e l’Orchis simia.
Quest’ultima è una specie mediterranea, non strettamente legata all’area dell’olivo, ma piuttosto alla cosiddetta area della vite, quindi arriva un pochino più a nord.
L’anno scorso è stata rinvenuta in una vallata alpina, questo ulteriore conferma dei cambiamenti climatici. In alcuni siti del Piemonte meridionale ha trovato le condizioni idonee, garantite da queste praterie aride, ed è riuscita a insediarsi a quote molto alte, fino a 1200 metri, mentre, fino a qualche anno fa, cresceva solamente fino a 600 metri sul livello del mare.

Successivamente, in questa carrellata, abbiamo il genere Neotinea, con le specie Neotinea ustulata e Neotinea tridentata, specie che si ibridano tra loro con grandissima frequenza.

Il genere Anacamptis è presente con l’Anancamptis morio, con fiori di solito viola, ma che possono essere anche bianchi e rosa, e la spettacolare Anancamptis pyramidalis, che deve il suo nome alla forma dell’infiorescenza.

Sono presenti anche diverse Serapias; in foto è presente la Serapias vomeracea assieme alla Barlia robertiana.

Queste sono una piccola parte delle orchidee che si possono trovare in un prato arido.

Che cosa dobbiamo fare per capire se ci troviamo di fronte ad un prato arido?

Dobbiamo osservare non solo l’orchidea, ma tutta la flora presente, perché ci sono delle specie caratteristiche di questo tipo di habitat e quindi, se troviamo loro, siamo in presenza di un prato arido.

Alcune di queste specie sono la Sanguisorba minor (sinonimo di Poterium sanguisorba), il Convolvolus cantabrica, l’Helianthemim apenninum, l’Hippocrepis comosa, l’Anthyllis vulneraria, la Globularia bisnagarica, il Teucrium chamaedrys, la Pilosella officinarum ed il Thymus vulgaris.

Nelle praterie aride sono presenti veri e propri gioielli, come per esempio il Rhaponiticum coniferum e l’Aphyllanthes monspeliensis, che sono presenti in pochissime stazioni.

È importante, quando si va alla ricerca delle orchidee, osservare anche tutto il contesto naturalistico che ci circonda, piante, alberi e uccelli, in quanto tutte le componenti di un habitat sono legate insieme in una “rete ecologica”.

Nelle praterie aride, in presenza di cespugli sparsi, possiamo trovare alcuni animali caratteristici, uccelli come la Tottavilla (Lullula arborea), lo Zigolo nero (Emberiza cirlus) o la Sterpazzolina di Moltoni (Sylvia cantillans moltonii) e soprattutto insetti. Se per esempio vedete un Ascalafo bianco (Libelloides coccajus), che non è una farfalla ma appartiene alla famiglia dei neurotteri, molto probabilmente lì vicino ci sono delle orchidee.

Una nota per i “cacciatori di orchidee”: camminando, fate attenzione ai nidi di uccelli in quanto alcuni di essi, come la Tottavilla, fanno il nido a terra

Uno dei principali problemi delle praterie aride è che evolvono con l’insediamento di arbusti e poi di alberi e, progressivamente, si trasformano in bosco.

Questo fenomeno o si arresta attraverso cause “naturali”, come un incendio, o può essere arginato attraverso la corretta gestione del territorio.
Prati bellissimi, nel Piemonte meridionale, poco per volta sono stati invasi dalla ginestra (Spartium junceum), molto bella da vedere ma molto invasiva.
Laddove diventa prevalente, di fatto fa scomparire il prato, visto che assieme a lei arrivano altre piante che copro- no uniformemente il terreno. Apriamo una parentesi che riguarda una di quelle praterie aride di greto fluviale.

Nell’immagine vediamo un prato del greto della Dora Riparia, nei pressi di San Giorio.
È forse l’ultimo sito dove esiste ancora una prateria ripariale, con una zona umida importantissima, perché nata dalla rinaturalizzazione di una cava.
Qui abbiamo alcune presenze molto importanti, come l’Anacamptis coriophora, profondamente minacciate dal pascolo abusivo e dalla raccolta indiscriminata di orchidee.

Rarefazione e interventi di ripristino col pascolo estensivo e gestione della modificazione ambientale

Giampaolo Bruno è un agronomo che ha lavorato per diversi anni in Università per passare poi alla libera professione.
Si occupa di rilievi floristici e di gestione dei pascoli, e ci mostra alcune esperienze pratiche di gestione di questi habitat. Ha lavorato al progetto Life Xero-grazing (Conservazione e recupero delle praterie xero-termiche della Valle di Susa mediante la gestione pastorale) a cui anche Lorenzo Dotti e Amalita Isaja hanno collaborato.

Questi sono identificati nella direttiva H 92/43/CEE con il codice 6210: “Formazioni erbose secche seminaturali e facies coperte da cespugli su substrato calcareo” ossia i brometi e con il codice 6240: “Formazioni erbose steppiche sub-pannoni- che” ossia gli stipeti, probabilmente meno interessanti dei primi per quanto riguarda le orchidee selvatiche.
Da un punto di vista agronomico sono delle praterie secondarie, cioè create dall’uomo, e sono delle praterie magre, quindi producono poca erba in quanto i terreni sono poco fertili, le erbe di scarsa qualità per la nutrizione del bestiame domestico, con un picco produttivo primaverile e poi la ricrescita autunnale.

La qualità del foraggio decresce rapidamente e solitamente non sono irrigabili e la meccanizzazione è difficile.
La gestione di queste praterie secche con l’abbandono, dal secondo dopoguerra in poi, delle tradizionali pratiche agro-pastorali è stata stravolta, mutando completamente l’uso del suolo. Nella figura a pagina accanto, tratta dal progetto Life Xero-grazing passiamo, ad esempio a Chianocco, da una viticoltura intensiva con dei coltivi e un bosco minoritario, a una copertura forestale prevalente con un po’ di praterie.
La trasformazione da prateria ad arbusteto e infine a bosco è stata veloce e si è svolta in poco più di cento anni.

Nella foto, per esempio, si vede un vecchio muro a secco, che delimitava una vigna, completamente invaso da alberi e arbusti.
Questo tipo di dinamica mette in difficoltà le orchidee. Nella figura sono presenti i dati di un censimento, che quest’anno riguarda il parco delle Alpi Cozie, sempre nell’ambito delle oasi xero-termiche, che riprende i dati del Life Xero-grazing e vi aggiunge un monitoraggio successivo.
Si può osservare come la densità di orchidee negli anni 2015 e 2017 sia stabile, o addirittura in leggero aumento con il pascolamento.
Nell’ottobre del 2017 la Val di Susa è stata colpita da un tremendo incendio, quindi ci si aspettava una diminuzione numerica, che poi è stata puntualmente registrata.

Quello che si sperava non accadesse, ma che poi si è verificato negli anni a seguire, in particolare nel 2021, è il trend di netta diminuzione della popolazione di orchidee (praticamente abbiamo trovato meno della metà delle orchidee rispetto al 2015).

In ogni caso bisogna valutare bene se è il caso di intervenire per difendere le orchidee.
In alcuni contesti potrebbe bastare il monitoraggio o il mantenimento delle pratiche colturali, in altri casi occorre fare degli interventi di tipo attivo, stando sempre molto ben attenti al fatto che noi magari, andando a incentivare o a favorire una specie, potremmo recare dei danni a tutte le altre.

Si rende quindi necessaria un’analisi scientifica di base prima di intervenire.
La filosofia che guida gli interventi di ripristino e mantenimento è il bisogno di allontanare la lettiera perché molte specie di orchidee sono amanti della luce, quindi bisogna rimuovere l’erba e la lettiera senza però danneggiare le rosette e le infiorescenze.

I tipi di intervento che abbiamo a disposizione sono lo sfalcio, il pascolamento di tipo estensivo e, in alcuni contesti, il decespugliamento, lo sfoltimento e la brancatura.
Lo sfalcio, per tutelare le orchidee, deve essere uno sfalcio tardivo rispetto al periodo ottimale di uti- lizzo della prateria dal punto di vista produttivo, cioè deve avvenire dopo la fioritura o meglio ancora dopo la fruttificazione.

In questi contesti di praterie poco produttive può essere sufficiente uno sfalcio all’anno, in un periodo che dipende dalle specie di orchidee presenti, anche se negli ultimi anni gli anticipi davvero notevoli delle fioriture rendono necessario un monitoraggio costante e, di anno in anno, ci si deve adeguare. Bisogna fare attenzione anche al tipo di strumento usato per lo sfalcio: ottima la barra falciante, va meno bene invece il decespugliatore per la difficoltà di mantenere l’altezza di taglio, che deve essere attorno ai 5-8 centimetri.

I vantaggi dello sfalcio riguardano tutta una serie di servizi ecosistemici, biodiversità e mantenimento del paesaggio, con un costo ridotto per la collettività perché l’azienda agricola stessa si procura del foraggio, quindi non sono necessari progetti e finanziamenti appositi.

Ci sono, però, dei limiti all’attuazione di questa pratica: la meccanizzazione, in alcuni contesti, può essere difficile, si ottiene poco foraggio e di bassa qualità.
Per le aziende agricole la convenienza economica c’è se si tratta di superfici meccanizzabili.

Non basta, inoltre, lo sfalcio, servono anche delle altre pratiche tradizionali quali il contenimento degli arbusti, concimazione leggera e organica del terreno.

Un’altra pratica molto interessante è quella del pascolamento, che va condotto in equilibrio con l’offerta foraggera. Deve essere un pascolo di tipo turnato, con recinzioni elettriche, oppure guidato dal pastore, evitando lo stazionamento prolungato del bestiame nello stesso territorio.

Il periodo di pascolo è o prima della comparsa delle infiorescenze, cioè quando sono ancora allo stadio di rosette, oppure decisamente più tardi, dopo la fruttificazione, e, soprattutto se si hanno a disposizione più settori di pascolo, quelli più ricchi di orchidee vanno utilizzati per ultimi.

In alcune zone si sta sperimentando un pascolamento “Biodiversity- friendly” per conservare le fioriture e favorire la biodiversità degli insetti impollinatori.
Il pascolo di tipo turnato ha il vantaggio di avere delle porzioni di pascolo a crescita in- disturbata, sia quelle già utilizzate che quelle che saranno utilizzate in seguito.

A proposito delle concimazioni, bisogna stare molto attenti perché le concimazioni abbondanti vanno ad alterare le popolazioni dei funghi micorrizici, importanti per le orchidee, e favoriscono eccessivamente le specie più competitive, cioè le graminacee, che crescono molto, tolgono luce e quindi arrecano danno alle orchidee.

Le specie di bestiame più idonee sono le pecore, perché sono molto selettive, rustiche e in questi contesti di prateria arida si sanno adattare molto bene, senza per questo rallentare il loro incremento ponderale.

In alternativa possono essere utilizzati gli asini (in quanto rustici e più leggeri dei cavalli) e le capre, ma solo con un’invasione arbustiva molto avanzata, perché tengono a bada gli arbusti. Non sono invece idonei i cavalli, perché sono pesanti e pascolano molto prossimi al terreno, e i bovini perché sono molto esigenti, quindi il loro incremento ponderale ne risentirebbe e, inoltre, sono poco selettivi.

Quali sono i vantaggi dell’utilizzo del pascolamento estensivo?

Anzitutto un costo ridotto per le aziende e per la collettività, in quanto questo tipo di pascolamento è una tecnica che richiede pochi materiali e pochi investimenti, se non la manodopera.

Ha il grosso vantaggio di poter gestire superfici molto ampie e fornisce tutta una serie di servizi ecosistemici, forse superiori a quelli dello sfalcio, e non necessita di progetti e finanziamenti.

Ci sono però delle limitazioni importanti al pascolamento: serve del bestiame rustico, i gruppi di bestiame non possono essere molto numerosi, deve essere presente una fonte d’acqua.

Ci sono poi vincoli normativi, per esempio il pascolamento nelle zone arbustive o boschive incendiate è vietato ed è limitato nelle zone inserite all’interno della Rete Natura 2000 (istituita ai sensi della Diretti- va 92/43/CEE “Habitat”).

Un altro limite è che, dal punto di vista zootecnico, non sono dei buoni pascoli in quanto, dovendo tutelare alcune specie, il pascolo può essere fatto in un periodo o troppo precoce o troppo tardivo dal punto di vista zootecnico.

Il pascolo può anche arrecare dei danni, quindi è necessaria una pianificazione agronomica e pastorale delle superfici, ad esempio i piani di pascolo: si valuta la risorsa foraggera, si vedono le specie da tutelare, si prescrivono quali sono i carichi e qual è il calendario di pascolamento e poi lo si fa attuare al pastore.

Assieme a queste attività, possono essere attuate alcune pratiche più impattanti, ad esempio il decespugliamento.

Nelle immagini si può vedere una sequenza fotografica di che cosa è accaduto in una prateria invasa dal prugnolo (Prunus spinosa, un arbusto spontaneo), dove, successivamente, c’è stata l’azione di decespugliamento.

Quattro anni dopo il prugnolo è cresciuto vigoroso tanto quanto prima dell’intervento.
Il taglio degli arbusti, come per esempio per il prugnolo, la rosa, il rovo ed il nocciolo, nei primi stadi di invasione, deve essere ripetuto per più anni e non basta il solo pascolamento.

Un’altra tecnica che è stata sperimentata, che ha dato dei buoni risultati, è quella delle sbrancature o delle sramature (quando già ci sono degli alberi di una certa dimensione, per far arrivare la luce al terreno, si può tagliare la parte di rami più vicini a terra, il primo terzo, come dice il regolamento forestale regionale).

Questo consente di far arrivare più luce e quindi di favorire le orchidee, inoltre consente anche un più facile accesso del bestiame nelle zone a inizio invasione.

La tecnica più impattante è il taglio di sfoltimento delle zone invase dal bosco.

 

Per questo tipo di intervento ci sono tutta una serie di prescrizioni e norme del regolamento forestale, che dicono quali sono gli iter autorizzativi da richiedere.

L’attenzione deve essere duplice perché, in Rete Natura 2000, ci potrebbero essere degli habitat forestali e delle specie di bosco che sono esse stesse protette.

Nella foto dell’esempio vedete dei tagli di roverella che hanno avuto un buon effetto e, negli anni a seguire, delle orchidee hanno colonizzato il luogo.

Sono però degli interventi molto costosi, attuabili su poche e ben individuate superfici, con un iter autorizzativo complesso, la cui l’efficacia sul lungo periodo è ancora da valutare e può essere impattante su altre specie, anch’esse da proteggere.